23 maggio, il giorno di Giovanni Falcone, il giorno della strage di Capaci. I luoghi del magistrato ucciso dalla mafia e un ricordo della Palermo di quei giorni del 1992.
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L’afa era già pungente. Nel 1992 l’estate arrivava prima di adesso e lasciava intendere che in Sicilia, a Palermo, non ci sono mai cose leggere. Prendere o lasciare, attraversare il deserto coperto e protetto come un Tuareg o lasciarsi andare e restare sepolto dalle dune.
I colori, quelli si, erano davvero simili ai tramonti che chi conosce l’Africa lo sa. Era il 23 maggio, un sabato come tanti. Tutti pronti per tenere le mezze maniche anche di sera, andare a mangiare una pizza con gli amici, festeggiare l’imminente fine della scuola e preparare i costumi perché da lì a poco si sarebbe andati al mare ogni giorno.
Eppure, quel vento caldo, quel giorno si era messo a urlare. Erano le voci di chi aveva sentito alla radio e di chi aveva tenuto accesa la tivù che, invece dei varietà, aveva iniziato a trasmettere edizioni straordinarie. Annunciavano tutti la stessa cosa: che il 23 maggio sarebbe stata una data da ricordare. Per sempre.
Nel bene o nel male, sembra che in questo mondo ci sia costantemente bisogno di simboli e martiri. Il destino ha voluto che quello fosse il giorno, l’ultimo, di Giovanni Falcone, della moglie e degli agenti della sua scorta.
Mi piace pensare che più che i simboli visivi, sia una data quella da ricordare. Semplicemente perché ciascuno di noi quel giorno lo ha vissuto a modo suo. E quello e dei giorni a seguire, anche.
Giorni in cui un’intera città si era riversata in strada per il semplice fatto di essere presente. Di poter dire io c’ero. Io ero fra quelli che alle bombe rispondono con la speranza.
Un filo sottile che lega le persone che la pensano allo stesso modo, era improvvisamente diventato un nodo. Un nodo in cui, mano nella mano, si creava una catena umana lunga chilometri. La gente di Palermo che abbracciava la sua città. Anzi no, che la incatenava, come si fa con un ponte levatoio a protezione della propria fortezza.
Il luoghi del 23 maggio
Ci sono delle strade, a Palermo, che si possono percorrere ripensando a Giovanni Falcone, il magistrato. Sono i vicoli e la piazza della Magione, il viale dell’Addaura in cui hanno provato a farlo fuori una volta precedente e poi via Notarbartolo, casa sua.
Lì, proprio davanti al suo palazzo, due elementi simboleggiavano insieme il presente e il futuro. Uno era il casotto di guardia della scorta. Una struttura di vetro antiproiettile che appariva indistruttibile. Anche se non lo era, e forse lo sapevano tutti.
Quando il magistrato usciva di casa, la strada veniva chiusa e i bambini che si trovavano nei paraggi venivano nascosti dietro i portoni degli androni dei palazzi. Mi è capitato più di una volta, una sorta di strano nascontino per un mezzo lattante. Una paura latente a cui in realtà, per un caso fortuito, ha risposto la natura, con la sua capacità di rinnovarsi senza chiedere niente in cambio. Un albero è così diventato la cassetta delle lettere e dei sogni di chi si rispecchia nei valori di Falcone.
Valori, che se ci pensate, sono di una semplicità disarmante. Rispettare le regole, essere una persona civile. Un rispetto che il magistrato nutriva anche nei confronti di quelli che, per scelta o per forza di cose stavano dalla parte dei cattivi.
Cose di cosa nostra
Vi invito ad una lettura, è “Cose di Cosa nostra” (potete sfogliarlo da qui), una sorta di diario di viaggio personale nella mafia di quegli anni e nell’animo del magistrato che avrebbe segnato la storia di Sicilia.
Un testo, scritto da Giovanni Falcone con la giornalista Marcelle Padovani, in cui trapela anche una strana forma d’amicizia tra il magistrato e un boss ormai pentito. Pagine in cui c’è spazio anche per ridere, come accade quando Falcone interroga un indagato per mafia che era stato suo amico d’infanzia. Leggetelo, è un imperdibile capolavoro.
La Palermo di quei giorni era candida, pulita e pura come i lenzuoli bianchi che venivano stesi fra i balconi dopo la strage di Capaci.
E c’era una canzone, diventata la colonna sonora di tutto quel che succedeva intorno a noi. Era povera Patria, del maestro Franco Battiato. Riascoltatela quando saranno finite queste parole, per ricordarci di come forse tutto cambi per restare com’è, mentre un albero e una data, quella del 23 maggio, continuano a produrre germogli di primavera.